INCONTRI CON L’INTERPRETE #3 – Alessandro Deljavan

Intervista ad Alessandro Deljavan

a cura di Gloria Galbiati

 

Nato in Abruzzo da madre italiana e padre persiano, Alessandro Deljavan inizia giovanissimo lo studio del pianoforte, debuttando in pubblico all’età di tre anni, e a soli sedici anni si diploma brillantemente al Conservatorio “G. Verdi” di Milano. Il suo pianismo raffinato e le sue doti artistiche sono ampiamente riconosciute sia dal pubblico che dalla critica e sono state confermate dalla vittoria di premi in prestigiosi concorsi pianistici internazionali, tra cui spicca il Concorso Van Cliburn di Fort Worth, nel Texas. Si esibisce regolarmente nelle principali stagioni concertistiche di tutto il mondo, come solista, con orchestra e in formazioni cameristiche (da dodici anni collabora con la violinista Daniela Cammarano, con la quale forma anche un trio, insieme al violoncellista Amedeo Cicchese). Ha all’attivo più di sessanta album discografici e recentemente ha fondato una sua etichetta, Aeras. Inoltre, Alessandro Deljavan è docente di pianoforte principale presso il Conservatorio “U. Giordano” di Foggia.

Nell’attesa di ascoltare il Maestro Deljavan sul palcoscenico in occasione della 51^ Stagione Concertistica, lo abbiamo incontrato e gli abbiamo fatto qualche domanda.

 

Maestro, ha iniziato giovanissimo lo studio del pianoforte. Come s’è avvicinato così precocemente alla musica?

Non avevo nemmeno due anni – per la precisione, un anno e otto mesi – quando i miei genitori mi portarono per la prima volta all’Accademia Musicale Pescarese, sicuramente non per mia volontà, perché ero così piccolo da non ricordare nulla. Mia madre ancora oggi mi racconta che a quell’età mi faceva ascoltare le Sinfonie di Mozart allo stereo e quando interrompeva di colpo la musica, io continuavo a cantare, inventando melodie mie. Sembrava che per me la musica fosse un linguaggio assolutamente naturale e spontaneo: volevo sempre ascoltare, in continuazione. Ecco perché i miei genitori decisero di portarmi all’Accademia, dove però vennero presi per pazzi, vista la mia precocissima età. Nonostante ciò, lì ci fu un insegnante di violino che volle conoscermi, e così iniziai le mie lezioni in quella scuola: dopo una prima fase di propedeutica musicale, passai presto allo studio del violino e del pianoforte, concentrandomi dai quattro anni in poi solo su quest’ultimo strumento e iniziando molto presto a tenere concerti e a partecipare a concorsi. Temo che la mancanza di controllo della mia gestualità facciale mentre suono – che molti mi criticano – sia dovuta al fatto che ho imparato a suonare il pianoforte prima ancora che a parlare: semplicemente fa parte del mio spontaneo modo di esprimermi e di vivere la musica.

 

Il contesto in cui trova spazio un’esecuzione ha un ruolo importante nell’attuazione del risultato artistico. Il suo modo di interpretare e di vivere la musica cambia a seconda che si esibisca in concerto, in concorso o in sala di registrazione?

Ogni situazione può determinare e condizionare, almeno in parte, il risultato di un’esecuzione. Sinceramente, non ricordo con grande gioia le esperienze in concorso, soprattutto nei grandi concorsi, dove tutto viene registrato: non sono un amante della diretta streaming, perché tramite questo modo di diffusione e di fruizione spesso si perdono molti aspetti musicali che sono fondamentali, come la qualità del suono e le sue sfumature. Tuttavia, non voglio negare l’importanza e l’utilità che possono avere i concorsi per un giovane pianista, infatti preparo e sostengo costantemente i miei allievi ad affrontarli.

Nei recital solitamente sono più tranquillo, soprattutto se ho a disposizione un bel pianoforte, in una sala con una buona acustica, che mi possa mettere a mio agio.

Il contesto che prediligo e che mi dà maggiore serenità è la sala di registrazione, dove sono solo e posso concentrarmi totalmente sulla musica. Dopo aver inciso oltre sessanta dischi nella mia vita, posso dire di avere una certa familiarità davanti ai microfoni. Mi piace registrare perché in questo modo posso fissare un’idea musicale che è unica, perché testimonia un momento preciso della mia vita. Tutto cambia continuamente e in maniera imprevedibile, anche la musica. Da poco ho fondato anche una mia etichetta discografica: si chiama Aeras, che in greco significa ‘aria’, l’elemento di cui abbiamo bisogno per vivere e per fare musica e che troppo spesso manca. Inoltre, la prima produzione di questa etichetta è stata il disco con le Variazioni Goldberg di Bach, che si apre proprio con un’Aria. 

 

In sala di registrazione non si rischia di perdere la spontaneità dell’esecuzione dal vivo per inseguire un’ideale di perfezione irraggiungibile?

La perfezione non esiste. Esiste il messaggio, e più il messaggio è artificiale, più esso è difficile da intendere. Io non registro per creare prodotti artefatti. Infatti, cerco di completare ogni disco sempre in un’unica giornata, registrando poche tracce, perché voglio che il risultato sia il più spontaneo e genuino possibile.

 

Quali sono gli autori che predilige?

Mi sento particolarmente vicino a Chopin, di cui ho inciso molto. Inoltre, amo Bach, Haydn, Mozart, Schubert, ma mi è impossibile fare una classifica. Ora sto cominciando ad avvicinarmi di più a Beethoven, un compositore che rispetto moltissimo e che ammiro, ma con cui non ho un rapporto così facile: ad essere sincero, mi provoca una sorta di imbarazzo, per la sua complessità e per la potente violenza che spesso emerge dalle sue opere. Schubert, invece, mi trasmette una serenità unica, infatti lo eseguo molto volentieri in concerto. Penso che il legame che ho con questo compositore sia nato e si sia consolidato quando conobbi il Maestro Fou Ts’ong all’Accademia Internazionale del Pianoforte del Lago di Como: all’epoca ero appena diciottenne e ancora non avevo le idee così chiare sul ruolo che la musica avrebbe avuto nel mio futuro. Alla prima lezione con Fou Ts’ong eseguii una Sonata di Schubert, e questo incontro si rivelò illuminante, oltre che determinante: mi aprì un mondo, e soprattutto in quel momento capii che nella vita avrei voluto fare il musicista. Sono molto grato al Maestro, un grande pianista ed insegnante, e la sua scomparsa, avvenuta nel dicembre scorso, mi rattrista molto.

Infine, oltre alla musica del passato, sono molto interessato alla nuova musica, soprattutto quella prodotta da giovani compositori italiani. Tra questi vorrei citare Umberto Galante, compositore pugliese di cui proporrò un brano proprio a Brescia per la Stagione della GIA, Antonello Tosto, che ha scritto per me una composizione che ho eseguito in prima assoluta, e il giovanissimo Graziano Riccardi, con cui sarò felice di collaborare molto presto.

 

Come vive l’esperienza dell’insegnamento?

Ormai è già da dodici anni che insegno nei conservatori italiani. Ho iniziato molto presto: inizialmente fui a Matera, poi a Bari e ora sono a Foggia. Penso che il compito principale di un insegnante sia quello di motivare l’allievo: è un lavoro molto mentale e psicologico. Ovviamente l’attenzione minuziosa alla tecnica e ai dettagli ci dev’essere ed è fondamentale, ma non è tutto. Un giovane ha bisogno di essere stimolato ad avere sempre obiettivi musicali (e non solo) da inseguire e su cui lavorare, per non sentirsi mai in un punto morto e statico. È questo quello che credo di riuscire a fare, sia in conservatorio che nell’accademia che ho fondato.

 

Ci racconta qualcosa della sua accademia?

Sono corsi annuali di perfezionamento, che si tengono a Villamagna (in provincia di Chieti), in una bellissima chiesa sconsacrata, dove ho fatto portare due pianoforti gran coda. Oltre a me, tengono corsi anche Daniela Cammarano (violinista e docente al Conservatorio “Paganini” di Genova) e Amedeo Cicchese (Primo violoncello del Teatro Regio di Torino), con i quali suono in trio. Arrivano ragazzi da tutta Italia, desiderosi di studiare ed imparare. Non mi aspettavo di avere così tanto successo, soprattutto in questo difficile periodo di emergenza sanitaria.

 

È attivo anche nell’ambito della musica da camera, quindi.

La musica da camera è fondamentale nella mia vita, anzi, è una necessità, e infatti trova ampio spazio nella mia attività concertistica e discografica, al pari della musica che suono come solista. Daniela Cammarano ed io formiamo un duo da dodici anni e ormai, quando siamo sul palco, è quasi come se fossimo una persona sola, perché ci capiamo perfettamente e respiriamo insieme. E la stessa cosa succede anche quando suoniamo in trio con Amedeo Cicchese.

 

Per concludere, pubblichiamo in questa intervista una sua registrazione. Che cosa ci propone?

Vi propongo un brano a cui sono molto legato, perché lo suono da quando ho quattordici anni, quindi fa parte della mia vita: è la Seconda Sonata per pianoforte op. 35 in si bemolle minore di Chopin. L’ho registrata durante il lock-down dello scorso anno, intorno a maggio, quando finalmente ho ripreso a muovermi dopo diverso tempo passato in casa. È una registrazione live, che porta con sé quella preziosa imprevedibilità che solo un’esecuzione dal vivo può avere.